Nelle memorie di Hans Werner Henze c’è un episodio che mi viene in mente tutte le volte che lavoro alla sua musica. L’episodio è il seguente: il compositore, all’epoca aspirante tale, si trovava arruolato nell’esercito tedesco durante la guerra, l’incarico era quello di scavare trincee nella terra per lo più ghiacciata. Da quei deliri militari e dalla follia della guerra riuscirà a salvarsi chiudendosi nel suo mondo interiore, «il vero mondo», concentrandosi sulla propria arte ed esercitando l’orecchio interno: «imparai ad ascoltare mentalmente concatenazioni di accordi dissonanti, ritardando continuamente tensioni e risoluzioni».
Nulla di eccezionale per un compositore, soprattutto per uno che in virtù del suo talento diventerà di lì a 25 anni uno dei compositori più eseguiti, influenti, singolari del secondo novecento. È eccezionale però il contesto e, almeno nella mia interpretazione della vita e della musica di Henze, eccezionali sono le conseguenze di quella scena primaria: un musicista trova nei suoni, nella musica, la mobile casa della vita – per usare un verso di Osip Mandel'štam. La musica quindi, per Hans Werner Henze, non rappresenta soltanto la naturale deflagrazione di un talento straordinario bensì un rifugio, o appunto una casa mobile per il nomadismo che sarà l’elemento fondante della sua poetica e della sua esistenza. Henze mi appare infatti un uomo e un compositore perennemente in transito da o per qualcosa che, pur essendogli caro, non gli è mai abbastanza prossimo per identificarvisi. O forse, al contrario, in viaggio da o per qualcosa che ama senza sentirsi ricambiato. Ecco un’altra immagine che egli stesso racconta: il giovane Henze torna a casa dalla guerra, ritrova la mamma ad aspettare alla finestra ma la mamma rimane delusa, l’atteso era il padre – che invece non tornerà mai – e non il figlio.
Gli esempi di questo atteggiamento nomade sono molti. In ordine sparso di cronologia e importanza lo ritroviamo simpatizzante (di alcuni esponenti e prodotti) della Scuola di Darmstadt pur dichiarandosene lontano quando non addirittura in conflitto – in risposta riceverà critiche tutt’altro che leggere. Grande ammiratore e promotore della musica di Luigi Nono, è speranzoso di un’amicizia che attenderà invano venendo per lo più ignorato quando non addirittura odiato e osteggiato (i contatti tra i due si interrompono definitivamente nel 1971 con le diverse reazioni all’affaire Padilla). Al contrario, con William Walton stringe una bellissima filiale amicizia già dai tempi di Ischia, pur non stravedendo per lui come musicista. La sua ammirazione va invece a Benjamin Britten, compositore che nell’idea di Henze rappresentava il naturale rivale e giovane successore di Walton. Ama il teatro mozartiano e lo elegge a suo ideale di bellezza ma con il bisogno continuo di compromettere quella stessa bellezza, nella propria musica, con la violenza e le dissonanze di una vita che voleva rappresentare per ciò che era stata. Si avvicina alla politica e abbraccia le istanze della sinistra comunista e nel 1967, mentre scrive Das Floß der Medusa e giunge la notizia della morte di Ernesto Guevara, ecco che l’oratorio diventa subito un’allegoria funebre per il Che. Nel 1970 è a Cuba per scrivere El Cimarrón, ma si accorge di essere spiato e l’anno successivo figura tra i firmatari dell’appello in favore della scarcerazione, per l’appunto, di Heberto Padilla, entrando così nella lista dei non graditi al governo cubano.
Sempre come un nomade approda al cinema, anche se solo occasionali e di passaggio sono le sue incursioni, cosa che non gli impedisce di scrivere quel piccolo capolavoro che sono le musiche per L’amour à mort (1984), di Alain Resnais, veri e propri intermezzi musicali su sfondo nero – al massimo attraversato da fiocchi di neve – a scandire le fasi di un amore che si spinge al di là della vita. Omosessuale ma innamorato di Ingeborg Bachmann arriva a chiederla in sposa per poi fare marcia indietro. In ultimo, ma l’elenco delle contraddizioni e ambivalenze di Henze sarebbe lunghissimo, è un tedesco che elegge l’Italia a patria ideale, salvo deludersi anche dell’Italia – è tra i primi a intuire il vertiginoso declino culturale che inizia ad affliggerla – diventa un italiano d’adozione con l’idea di tornare in Germania, cosa che non farà mai, rifugiandosi sempre più spesso in Kenya sull’Isola di Lamu.
Musicalmente spazia dalla grande orchestra sinfonica novecentesca alla intimissima chitarra – due organici per lui perfettamente sovrapponibili – e dal teatro alla musica sinfonica e a quella cameristica. Stilisticamente attraversa la (quasi) tonalità, il (quasi) serialismo, la (quasi) aleatorietà, tutto quasi fino a conquistare un suo metodo dove la forma si mostra soltanto in una sua compiutezza di cui è difficile scorgere le fondamenta e dove il comporre procede per sublimazione di testi letterari, immagini pittoriche, oniriche, e questo è forse l’elemento che più lo allontana dalla corrente maggioritaria del suo tempo, ovvero dalla visione di una musica che significherebbe solo sé stessa. Henze invece sembra voler dire, a ogni momento e proprio con Mozart, che la musica è sempre teatro anche quando è solo musica strumentale – e che il teatro deve sempre pulsare di vita oppure non è teatro.
La chitarra diventa lo strumento chiave per esplorare il limite estremo del suo atteggiamento estetico. Perché la chitarra? Forse per il suo vastissimo potenziale timbrico, forse perché eternamente in bilico tra l’essere strumento di corte e strumento del popolo. Quale che sia la ragione, è per chitarra che arriva a comporre le due Sonate che compongono il ciclo Royal Winter Music, basate sui monologhi dei personaggi – gli underdog, per usare la definizione del compositore stesso – shakespeariani. Tutti per lo più negativi, o sgradevoli, o appunto perdenti, o destinati alla follia: apre il ciclo Gloucester, ovvero il monologo di Riccardo III che offre anche lo spunto per il titolo dell’opera: Now is the winter of our discontent…, lo chiude Mad Lady Machbeth con le mani macchiate di sangue senza rimedio e senza possibilità di redenzione. Sono i due movimenti più impegnativi del ciclo e, con tutta probabilità, la musica tra le più difficili mai scritte per la chitarra. Anche in questo, l’elemento nomade non viene meno, perché si procede andando e tornando continuamente tra due idee. La prima è quella di una musica strumentale che evoca il teatro con il solo suono; l’altra è quella di un vero e proprio teatro che perde ogni suo elemento scenico, attori o cantanti compresi, per essere inscenato dal solo suono.
Che la musica di Henze desideri pulsare di vita appare evidente se consideriamo che nella vita del compositore le relazioni sono quasi sempre intrecciate alla musica: diventano amici i colleghi e colleghi gli amici, quando gli amici smettono di lavorare come dei pazzi Henze li rimprovera, e quando gli amici sentono di dover ripiegare su ambizioni più modeste arrivano i suoi incoraggiamenti protettivi: «Non sei fatta per la sala d'attesa di seconda classe della radio bavarese, attorniata da imbecilli intellettuali di merda e neanche per il caffè liutpold. tu devi cavalcare su sentieri petrosi, incordata su un mulo, agitando la frusta fra gli occhi gelidi delle lucertole e i cercatori di erbe, verso l'astro del mattino, verso l'imprevisto. anch'io un giorno se sarò stato ubbidiente volerò in cielo su draghi dorati» – scriverà all’amatissima Inge.
Pochissimi hanno lavorato quanto Henze, spesso spendendosi fino all’esaurirsi del fisico e della mente, e pochissimi hanno saputo godere come lui, gioiosamente e a piene mani, dei frutti del proprio lavoro: le case, prima a Forio, poi a Napoli, a Roma, e poi ancora La Leprara a Marino, e infine sull’isola di Lamu; e le auto, dalle Fiat, alle Alfa Romeo, alle Jaguar e infine Maserati; i vestiti sempre più eleganti, i dipinti, gli arredi, i levrieri, e soprattutto i contesti lavorativi: dalla modestia del corps de ballet dello Stradttheater di Bielefeld a Luchino Visconti, alla Biennale di Venezia, all’incontro con il “Grande Padre Stravinskij” di cui scriverà: «Per la prima (e ultima) volta nella mia vita sapevo con sicurezza che stavo entrando nell’aura di un mito» ; dalla famiglia d’origine alla famiglia acquisita: Ingeborg Bachmann, Elsa Morante per breve tempo, i coniugi Walton, Wystan Hugh Auden e Chester Kallman, una rete di contatti fittissima. Tutto, nella vita del compositore, sembra essere stato in ascesa in virtù di una sete di riscatto insaziabile, e anche di una serie di ferite insanabili, abbandoni, solitudine, vergogna che sfoceranno – torniamo a Lady Macbeth – in un autentico complesso di colpa. La colpa è forse il sentimento che più di ogni altro, dalla morte di Ingeborg Bachmann, lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni. Ancora trent’anni dopo la sogna, lei siede all’Antico Caffè Greco di Via Condotti come un’estranea, mostra di non riconoscerlo. «Avrei forse dovuto presentarmi di nuovo?». E nella musica trova ancora una volta il conforto: «Oppure aprire gli occhi, alzarmi e scrivere?»
Giacomo Palazzesi
Macerata, 28 luglio 2021
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