Forte dei Marmi, estate 1928
Proust
Qualche tempo fa leggendo le prime pagine de À la recherche du temps perdu mi sono ricordato che Mario Castelnuovo-Tedesco aveva dedicato, nelle sue memorie, un intero capitolo a Proust. L'ho subito cercato e riletto incuriosito. Si racconta dell'estate del 1928, il compositore la passò a leggere tutti i volumi della Recherche, disteso su un'amaca di una villetta di Forte dei Marmi dov'era in vacanza con la sua famiglia.
C'è ovviamente molto di più, perché per il compositore questa esperienza si rivela vera e propria tappa del suo apprendistato musicale. Arriva infatti a definire la Recherche «la più bella delle sinfonie», ne analizza la forma e il processo che la costituisce definendolo vero e proprio «metodo di composizione». Questo metodo esprime «l'arte di associare elementi in apparenza disparati e lontani, di suscitare echi imprevisti, di far emergere dalla nebbia di un ricordo immagini concrete: quest'arte infine che, partendo dalla segmentazione giunge, attraverso il gioco sottile e abilissimo dei temi, alla ricostruzione di un organico vasto e poderoso, saldo di architettura e denso di significato».
In questo disco ho raccolto le sue prime tre composizioni per chitarra e una delle greeting cards. Tre opere scritte tra il 1932 e il 1935 più una degli anni '50, dove maggiormente che in altre scorgo qualcosa di speciale e per le quali, alla luce di quel qualcosa – che cercherò di spiegare – è scattato un innamoramento artistico.
Comincio col dire che questo qualcosa è per me l'equilibrio formale. Un equilibrio sì raggiunto ma – e qui sta la singolarità rispetto ad altre opere del catalogo del compositore fiorentino – raggiunto con la premessa dell'essere stato conquistato a fatica e/o forse non del tutto. Si partecipa al dialogo continuo, o forse a uno scontro, tra l'immaginazione vivissima e un'idea di forma che vorrei chiamare forma assoluta. Ma è in virtù di questa fatica, di questo essere non del tutto pacificata la forma, che si raggiunge in queste composizioni ciò che personalmente considero l'apogeo dell'inventiva architettonica del compositore, costretto a cercare vie nuove da uno strumento sconosciuto quale gli appariva la chitarra.
E soprattutto, questo spingere dell'immaginazione verso una rottura formale, e la conseguente tenuta e/o riedificazione della forma (un esempio è lo sviluppo della forma sonata del primo movimento, Allegro con spirito, della Sonata Op. 77), permettono all'interprete di essere interprete nel senso allargato del termine. Dunque veicolo e traduttore del testo in suono, ma anche attore dello stesso testo che domanda una scena proprio alla luce di una mancata compiutezza sulla carta.
Più evidente, a un livello superficiale, emerge l'impossibilità di suonare i brani così come scritti dal compositore, fatto che chiama in causa l'operato di Segovia come revisore, e ancora a monte come interprete del suo tempo e della sua estetica; e interprete di tutto ciò in primo luogo, prima ancora che interprete dei compositori e delle loro musiche.
Ed ecco che lavorare a tutto questo non può che rappresentare anche, e per forza di cose, un'indagine tra il musicista di oggi quale sono, e quello di ieri che questa musica l'ha filtrata per primo.
Rispetto alle edizioni segoviane, ho considerato gli spostamenti di voci interne di non pochi accordi, alcuni trasporti di ottava, o addirittura piccoli aggiustamenti tematici, dei peccati veniali di ordine idiomatico-chitarristico, e comunque funzionali all'idea di chitarra segoviana. Dei peccati che tali non ritengo e che anzi mi sembrano virtù. Virtù in quanto complici della musica stessa proprio in ragione di un tradimento che le permetta di essere recitata invece che sillabata o (peggio ancora) freddamente detta.
Se si dice estetica della chitarra, si fa riferimento anche all'eterna contrapposizione di chitarra-orchestra e chitarra-pianoforte. In questo la visione segoviana della musica, e quindi di Castelnuovo-Tedesco, è infallibile: il compositore orchestra le sue composizioni chitarristiche pensando a un'orchestra impossibile e, dunque, ideale.
Ed ecco il perché di Proust come scintilla per comprendere Castelnuovo-Tedesco. Una scintilla collegata all'intramontabile fascino di Andrés Segovia che invitava a pensare la chitarra non come modesta imitatrice di suoni orchestrali, bensì come evocazione di quei suoni – la chitarra che llora por cosas / lejanas è un topos fortissimo della cultura iberica del primo novecento. E quindi se parlo di orchestrazione parlo dei temi in quanto personaggi – e questo sembra essere il fulcro della lezione che Castelnuovo-Tedesco attribuisce a Proust. Il gioco sottile e abilissimo dei temi, diviene il tratto distintivo dell'opera del compositore allo stesso modo in cui lo è, secondo l'idea di Castelnuovo-Tedesco, della recherche proustiana.
Nei vicoli entro cui si muove la chitarra, il compositore sembra liberarsi della facilità del suo scrivere, del mestiere. Nel perdere per ritrovare, Castelnuovo-Tedesco percorre il sentiero di assoluta sincerità artistica cui la nudità della chitarra sembra obbligare.
Di tutto ciò, come interprete e dal punto di vista puramente musicale, ho voluto esplorare ciò che mi è parso nuovo in virtù delle fonti oggi disponibili; guardando soprattutto all'abbondanza di indicazioni agogiche e quindi accenti, colori, dinamiche, come a una miniera di possibilità inesplorate.
Evito una trattazione musicologica e analitica dei brani. A chi volesse approfondire la musica di Castelnuovo-Tedesco sotto questi aspetti, consiglio la lettura di tutto ciò che su di lui ha scritto il compositore Angelo Gilardino; pagine rispetto alle quali difficilmente si potrebbe aggiungere qualcosa di anche solo lontanamente significativo.
Vorrei però dare alcuni dettagli intorno all'utilizzo delle fonti stesse. Ho già scritto di alcune scelte sul testo, seppure in termini piuttosto nebbiosi di peccati e virtù. In realtà quelle considerazioni riguardano soprattutto la Sonata op. 77, e le Variazioni attraverso i secoli op. 71. In entrambe le opere – ma per complessità di scrittura, e impegno tecnico-musicale richiesto, questo risulta maggiormente evidente sulla Sonata – ho seguito una terza via personale, basandomi dunque sulla fonte diretta ma guardando con grandissima ammirazione e considerazione alle scelte segoviane, alcune volte riproposte identiche, più spesso mediate da un mio bisogno di vicinanza al testo come resa di tutte quelle indicazioni agogiche di cui ho già scritto.
Per il Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini) op. 85a, seguo invece integralmente l'edizione edita da Ricordi, curata da Angelo Gilardino e Luigi Biscaldi.
Come interprete ci tengo a spiegare la distanza evidente dal mito ottocentesco / tardo-romantico del Paganini-Demone che aveva con tutta probabilità animato la richiesta di Segovia, e in seguito mosso anche la sua interpretazione.
Contrariamente all'idea segoviana ho pensato che il dáimōn di queste pagine si annidasse nell'espressività, nella resa dei colori e soprattutto nei molti passaggi cantabili del brano, del resto il diavolo fa il bagno nella malinconia.
Per fare tre soli esempi ma concreti, come da edizione citata ho ripristinato passaggi accordali che Segovia modificò in semplici passaggi melodici di singole note, reintegrato ciò che fu falcidiato (la transizione di 24 battute nell'epilogo), ed eliminato ciò che risulta posticcio, cioè la citazione finale del tema della Campanella.
Tonadilla (sur le nom de Andrés Segovia), è la n. 5 delle Greeting Cards op. 170, un omaggio sentito del compositore al chitarrista. È un brano incluso per il senso di continuità, o addirittura contemporaneità, per me così forte, con le opere più vecchie di venti anni che lo precedono nel disco. Ritratto di Andrés Segovia immenso musicista, prezioso amico, e – mi permetto di supporre – luogo della memoria. Seul il avait le pouvoir de me faire retrouver les jours anciens, le Temps Perdu, devant quoi les efforts de ma mémoire et de mon intelligence échouaient toujours.
Giacomo Palazzesi
Appignano, 12 febbraio 2019